Uomini come Poe, o Lovecraft, non possono che essere associati alla Solitudine. Non tanto, o meglio, non solo, una solitudine a livello fisico, ma una Solitudine a livello Morale.
Costoro sono uomini diversi, che poco hanno a che fare con i modi delle loro società, sono degli Estranei, e così i propri personaggi.
Costoro sono uomini diversi, che poco hanno a che fare con i modi delle loro società, sono degli Estranei, e così i propri personaggi.
Propongo qui The Outsider, L' Estraneo, scritto da Howard Phillips Lovecraft nel 1921 e pubblicato nell' Aprile del "26, sulla rivista Weird Tales.
Il protagonista è appunto uno di questi Uomini Solitari, in cerca della luce.
Lovecraft stesso scrisse dell' opera "It represents my literal though unconscious imitation of Poe at its very height.- Rappresenta l' apice della mia letteraria imitazione, sebbene inconscia, di Poe."
Alcuni elementi del racconto sono ripresi nel film Castel Freak, diretto nel 1995 da Stuart Gordon .
Dopo il salto, anche il testo originale...
Dopo il salto, anche il testo originale...
Quella notte il Barone sognò molte sciagure,
E tutti i suoi ospiti guerrieri, in forma ed apparenza
Di streghe, larve e grassi vermi delle sepolture,
A lungo tormentarono i suoi sogni.
KEATS
Infelice chi dell’infanzia ha soltanto memorie di paura e tristezza. Sventurato chi, volgendosi indietro, non vede che ore solitarie trascorse in sale vaste e malinconiche, tappezzate di lugubri tendaggi e file esasperanti di libri antichi, o in desolate veglie in boschi crepuscolari fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe, che agitano silenziosi in alto i rami contorti.
Tal sorte gli dèi hanno riservato a me... A me: l’attonito, il deluso; l’abbandonato, l’infranto. Eppure, stranamente pago, mi aggrappo in modo patetico anche a questi ricordi appassiti negli attimi in cui la mente minaccia di soverchiarli per richiamare l’'altro ricordo.
Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era infinitamente antico e infinitamente orribile, pieno di ànditi oscuri e di alti soffitti ove l'occhio null'altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi in sfacelo parevano sempre odiosamente viscide, e ovunque stagnava un lezzo esecrabile, come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle morte generazioni.
Non vi era mai luce, sicché solevo talvolta accendere qualche candela e contemplare la fiamma per trovar conforto. Né mai risplendeva il sole al di fuori, ché gli alberi giganteschi crescevano più alti della torre più elevata che fosse accessibile. Una sola torre, nera, si innalzava al di sopra degli alberi, riuscendo a penetrare il cielo sconosciuto: ma era diroccata all’interno e non si poteva ascendere se non arrischiando una scalata pressoché impossibile lungo la parete nuda, pietra dopo pietra.
In quel luogo devo aver vissuto per anni, ma non so misurarne il numero. Qualcuno di certo doveva provvedere a ciò che mi era necessario; tuttavia, non mi sovviene di altri esseri umani all’infuori di me, né di alcunché di vivo eccetto i topi silenziosi, i pipistrelli o i ragni. Credo che chi mi ha allevato dovesse essere paurosamente vecchio, giacché la mia prima idea di un essere vivente fu di qualcosa che mi rassomigliava in maniera caricaturale, ma che era deforme, avvizzito e cadente come il castello.
Non trovavo nulla di grottesco nelle ossa e negli scheletri che affollavano una parte delle cripte di pietra dei profondi sotterranei. Nella mia fantasia, accomunavo quelle cose agli eventi quotidiani, e le ritenevo assai più naturali delle immagini variopinte di esseri umani che scorgevo in molti dei libri ammuffiti.
Da quei libri ho appreso tutto ciò che conosco. Nessun maestro mi ha mai stimolato o guidato, né rammento di aver mai udito voce umana durante quei lunghi anni, foss’anche la mia stessa voce; di fatto, benché dalle mie letture avessi appreso dell’esistenza del linguaggio, non mi è mai venuto in mente di parlare a voce alta. Anche il mio aspetto era al di fuori delle mie congetture, dato che nel castello non vi erano specchi, ed io per istinto mi consideravo simile alle figure giovanili che vedevo disegnate o dipinte nei libri. E che fossi giovane lo deducevo dalla esiguità dei miei ricordi.
Sovente uscivo a sdraiarmi oltre il putrido fossato, sotto i cupi alberi muti ove passavo ore ed ore a sognare di ciò che avevo letto nei libri; e con ardente desiderio mi figuravo tra folle di gente gaia nel mondo assolato che si apriva oltre la foresta infinita. Una volta tentai di fuggire da quella foresta ma, non appena mi fui allontanato dal castello, l’ombra si fece più spessa e l’aria più densa di insidie paurose; al punto da indurmi a tornare indietro, in corsa affannosa, per timore di smarrirmi in quel labirinto di notturni silenzi.
Così, tra crepuscoli infiniti, sognavo ed aspettavo, senza neppure sapere che cosa aspettassi. Finché, in quella solitudine fatta di ombre, la mia brama di luce divenne così intensa da non darmi più pace, e sollevavo le mani supplicanti verso la nera torre in rovina che, sola, valicava la foresta innalzandosi nel cielo sconosciuto. Alla fine, mi risolsi a scalarla anche a costo di precipitare, perché sarebbe stato certo preferibile scorgere il cielo e poi perire, piuttosto che vivere senza aver mai conosciuto la luce del giorno.
Nell’umida penombra, mi inerpicai su per la scala di pietra antica e consunta, quindi, giunto là dove si interrompeva, mi aggrappai pericolosamente ai piccoli appigli che conducevano in alto. Pauroso e terribile mi appariva quel cilindro di roccia, inanime e privo di scale; tetra, diroccata e desolata, la torre era resa ancor più sinistra dai pipistrelli spaventati che agitavano ali silenti. Ma ancor più paurosa e terribile era la lentezza con la quale procedevo; difatti, per quanto continuassi ad arrampicarmi, il buio che mi sovrastava non accennava a dissiparsi, e fui assalito da una sensazione nuova: un gelo malefico, come di una muffa spettrale e immensamente antica. Rabbrividii domandandomi perché non raggiungessi mai la luce, e fui tentato di guardare in basso, ma non osai farlo. Immaginai che la notte mi avesse sorpreso d'improvviso, e invano tastai il muro con la mano libera alla ricerca di una finestra dalla quale sporgermi a guardar fuori per cercare di farmi un’idea dell'altezza raggiunta.
All’improvviso, dopo un’interminabile cieca scalata su per il terribile precipizio concavo, sentii il mio capo urtare qualcosa di solido, e capii allora di essere infine giunto al tetto, o comunque ad una sorta di soffitto. Nelle tenebre, sollevai la mano libera e saggiai l'ostacolo, che si rivelò di pietra e inamovibile.
Intrapresi dunque un mortale circuito all'interno della torre, aggrappandomi ad ogni appiglio che la viscida parete mi offrisse, finché arrivai ad un punto che cedette alla pressione della mia mano. Mi volsi nuovamente verso l'alto e presi a spingere la lastra - o porta che fosse - con la testa, usando entrambe le mani per la terrificante ascesa. Non intravidi la più fioca luce sopra di me e, allorché portai le mani più in alto, compresi che per il momento la mia scalata era terminata.
La lastra era difatti una botola che conduceva ad una superficie di pietra di circonferenza maggiore di quella della torre sottostante. Indubbiamente, si trattava del pavimento di un alto e spazioso osservatorio. Con grande cautela mi infilai attraverso la botola e cercai di impedire che la pesante lastra ricadesse a chiudere l'apertura, ma non vi riuscii. E mentre, esausto, giacevo sul pavimento di pietra, udii l’eco spaventosa della sua caduta; mi augurai di riuscire a risollevarla se fosse stato necessario.
Convinto di trovarmi ormai ad un’altezza prodigiosa, molto al di sopra dei detestati rami del bosco, mi tirai su e, annaspando tutt’intorno, cercai una finestra dalla quale, per la prima volta, avrei potuto vedere il cielo, la luna e le stelle di cui avevo letto.
Dovetti disilludermi: le mie mani non trovarono che nicchie di marmo sulle quali erano disposte lunghe casse esagonali di dimensioni inquietanti.
Ero sempre più dubbioso, e mi chiedevo quali antichi segreti fossero racchiusi in quell'elevata dimora da tempo immemorabile separata dal castello sottostante; ad un tratto, inaspettatamente, le mie mani si posarono su un arco che sormontava un portale di pietra istoriato con bizzarre cesellature.
Lo tentai, e vidi che era chiuso; poi, con uno sforzo supremo, superai tutti gli ostacoli e riuscii ad aprirlo tirandolo verso di me. Subito fui pervaso dall'estasi più pura che abbia mai conosciuto, perché, rifulgente di un quieto bagliore, attraverso una grata di ferro arabescata e al termine di una breve scalinata che risaliva dal varco appena trovato, v’era raggiante la luna piena, che non avevo mai visto prima, se non nei sogni e in quelle visioni confuse che non osavo chiamare ricordi.
Immaginando di aver raggiunto il pinnacolo più alto del castello, presi a salire di corsa i gradini che avevo scorto oltre il portale; ma una nuvola velò improvvisamente la luna e inciampai, per cui dovetti proseguire nel buio con maggior cautela.
Le tenebre erano ancora fitte quando giunsi alla grata. Mi provai a spingerla con prudenza, trovandola non serrata. Decisi comunque di non forzarla, temendo di precipitare da quell’altezza vertiginosa alla quale ero asceso. Quand’ecco, che la luna riapparve.
Il più demoniaco di tutti gli sconvolgimenti, è quello che unisce il profondamente inatteso con il grottescamente incredibile. Nulla di ciò che avevo sofferto fino a quel momento poteva paragonarsi al terrore che scaturiva dalla bizzarra prodigiosità della visione che ora si apriva dinanzi ai miei occhi, e all'assurdo che essa implicava.
La scena in se stessa era semplice, e al tempo stesso sbalorditiva, perché si riduceva a questo: invece di una vertiginosa prospettiva di cime d’alberi viste da una elevatissima altura, al di là dell'inferriata si stendeva tutt’intorno, al mio stesso livello, nient'altro che il solido terreno, una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch'esse di marmo, sovrastate dall’ombra di un’antica chiesa di pietra la cui guglia diroccata riluceva spettralmente nel chiarore lunare.
Semincosciente, aprii il cancello e, barcollando, m'incamminai lungo il bianco sentiero di ghiaia che si diramava in due diverse direzioni. La mia mente, pur stordita e confusa, conservava tuttavia il desiderio febbrile della luce, e neppure la scoperta incredibile che avevo fatto avrebbe potuto fermare i miei passi.
Non sapevo, né mi premeva saperlo, se l’avventura che stavo vivendo fosse un sogno, magia, oppure frutto della follia. Non aveva importanza alcuna per me, che ero più che mai deciso a contemplare ad ogni costo lo splendore e la gioia. Non sapevo chi fossi, né che cosa fossi, e neppure a quale mondo appartenessi; tuttavia, mentre avanzavo solitario incespicando ad ogni passo, nacque in me la coscienza di una sorta di spaventosa memoria latente che rendeva il mio procedere non del tutto casuale.
Passai sotto un arco che delimitava quella estensione di lapidi e colonne, e mi ritrovai così a vagare in aperta campagna. Talvolta seguivo la strada visibile, ma a tratti me ne allontanavo, seguendo una strana ispirazione, per percorrere prati nei quali ruderi scheletrici testimoniavano l’antica presenza di una strada dimenticata. Attraversai a nuoto il fiume che correva rapido e vi scorsi muscose rovine diroccate, vestigia di un ponte da lungo tempo caduto.
Dovevano esser certamente trascorse più di due ore, quando giunsi a quella che sembrava fosse la mia meta: un antico castello ricoperto d'edera che sorgeva in un parco fitto di alberi. Mi appariva assurdamente familiare, eppure era dotato di sconcertanti stranezze.
Osservai che il fossato era stato riempito e che alcune delle torri erano state demolite, mentre nuove ali erano state aggiunte all'edificio per disorientare l’osservatore. Ma ciò che contemplai con sommo interesse e diletto furono le finestre aperte, magnificamente ravvivate dalla luce, dalle quali si udiva provenire l’eco della baldoria più gaia.
Mi accostai ad una di essa e guardai dentro: una compagnia di persone curiosamente abbigliate si divertivano e parlavano allegramente tra di loro. Per quel che ne sapevo, non avevo mai udito prima d’allora il linguaggio umano, sicché potevo soltanto intuire quel che dicevano. Alcuni di quei volti recavano espressioni che richiamavano alla mia memoria reminiscenze incredibilmente remote, laddove altre sembianze mi risultavano del tutto estranee.
Scavalcai allora la bassa finestra e penetrai nella sala inondata dalla luce più splendente e, ciò facendo, passai dall’attimo di suprema e fulgida speranza allo spasimo più oscuro della disperazione e della rivelazione. L’incubo fu lesto a venire: allorché fui nella stanza, si verificò immediatamente una delle più terrificanti reazioni che mai avessi concepito.
Avevo appena varcato il davanzale, che su tutta la comitiva si abbatté un improvviso e inatteso terrore di spaventosa intensità, tale da sfigurare ogni volto e indurre ogni gola ad emettere le urla più orribili. Tutti fuggirono all’impazzata, e in quell’ondata di panico e confusione, alcuni caddero in terra svenuti e furono travolti dai compagni che scappavano in preda al delirio. Molti si coprivano gli occhi con le mani precipitandosi in una fuga cieca e impetuosa, durante la quale rovesciavano mobili e andavano a cozzare contro i muri, prima di riuscire a guadagnare una delle numerose porte.
Le grida erano raccapriccianti; ed io, rimasto solo e inebetito nella sala splendidamente illuminata, raggiunto dall'eco della urla che si allontanavano, tremavo al pensiero della minaccia invisibile che forse si celava in agguato presso di me.
Ad una prima occhiata superficiale, la stanza mi parve deserta ma, allorché avanzai verso una delle alcove, mi sembrò di avvertirvi una presenza: un movimento furtivo oltre la porta incorniciata da un arco dorato che sembrava dare accesso ad un'altra stanza identica alla prima.
Mentre mi approssimavo all’arco, cominciai a percepire quella presenza in maniera sempre più distinta; fu allora che, col primo e ultimo suono che la mia gola abbia mai emesso - un ululato spaventoso che mi sconvolse nel profondo quasi quanto ciò che lo aveva provocato - contemplai nella sua più piena e terrificante vivezza l’inconcepibile, indescrivibile e indicibile mostruosità che, al suo solo apparire, aveva trasformato una festosa compagnia in un branco di fuggiaschi deliranti.
Quella cosa, non posso neppure tentare di descriverla. Era un miscuglio di tutto ciò che è immondo, innaturale, ripugnante, abnorme e detestabile. Era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; la marcia, stillante effigie delle rivelazioni più empie, l’orrenda esibizione di ciò che la terra misericordiosa dovrebbe tenere per sempre celato. Dio sa che non apparteneva a questo mondo o meglio non vi apparteneva più - eppure, con immenso orrore, riconobbi nei lineamenti corrosi dai quali affioravano le ossa, la parodia aberrante e perversa della forma umana, e in quell’insieme putrido e disfatto, scorsi qualcosa di indicibile che mi agghiacciò ancor di più.
Ero pressoché paralizzato, cionondimeno riuscii a trovare la forza per un pietoso tentativo di fuga; arretrai vacillando di un passo, ma non infransi l’incantesimo nel quale il mostro muto e innominabile mi teneva prigioniero. I miei occhi, stregati da quelle orbite vitree che li fissavano disgustosamente, rifiutavano di chiudersi ma, offuscatisi misericordiosamente dopo il primo sguardo, scorgevano ora quella cosa terribile in maniera indistinta.
Mi provai a sollevare la mano onde celare quella visione, ma i miei nervi erano così storditi che il braccio non seppe obbedire appieno alla mia volontà. Il tentativo fu però sufficiente a farmi perdere l’equilibrio, sicché, ondeggiando, avanzai di alcuni passi per evitar di cadere. Allora fui improvvisamente e angosciosamente consapevole della vicinanza di quell'essere-carogna, del quale mi parve di udire il sordo e odioso respiro.
Ormai prossimo alla follia, fui tuttavia capace di allungare una mano per respingere la fetida apparizione che mi incalzava così dappresso, quand'ecco che, in un istante di orrore cosmico e di evento infernale, le mie dita toccarono la putrida zampa del mostro tesa al di sotto dell'arco dorato.
Non urlai, ma tutti i demoni malvagi che cavalcano i venti della notte urlarono per me, allorché, in quello stesso istante, fui travolto da un’improvvisa e compatta valanga di ricordi che mi annientarono l’anima. Seppi allora tutto ciò che era stato; il ricordo valicò gli alberi e il castello spaventoso e riconobbi l’edificio, pur trasformato, nel quale mi trovavo. Ma, più terribile di tutto ciò, riconobbi l'empia abominazione che mi ghignava davanti mentre ritraevo dalle sue le mie dita insozzate.
Per fortuna nel cosmo, accanto all’amarezza, vi è anche il balsamo per alleviarla, e quel balsamo è il nepente 1. Nell’orrore supremo, l’oblio mi soccorse, e l’esplosione di quegli oscuri ricordi svanì in un caos di immagini degradanti.
Come in un sogno, fuggii dal maledetto castello stregato e corsi via in silenzio nella luce della luna. Quando tornai al cimitero marmoreo antistante la chiesa e discesi i gradini, non mi riuscì di smuovere la botola di pietra, ma non ne fui rattristato, sì tanto avevo odiato gli alberi e l’antico castello.
Adesso corro con demoni beffardi nel vento della notte, e di giorno mi trastullo tra le catacombe di Nephren-Ka, nella valle cupa e sconosciuta di Hadoth presso il Nilo. So che la luce non è per me, eccetto quella della luna sulle tombe rocciose di Neb, e neppure per me è la gaiezza, eccetto quella delle abominevoli feste di Nitokris ai piedi della Grande Piramide; eppure, nella mia nuova e sfrenata libertà, accetto quasi con gioia l'amarezza dell'alienazione. Perché, pur se l’oblio del nepente ha lenito la mia sofferenza, ugualmente so di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini. E lo so da quando ho proteso le dita verso quell’obbrobrio entro la grande cornice dorata: da quando ho proteso le dita e ho toccato la fredda e dura superficie di uno specchio.
***
I know not where I was born, save that the castle was infinitely old and infinitely horrible, full of dark passages and having high ceilings where the eye could find only cobwebs and shadows. The stones in the crumbling corridors seemed always hideously damp, and there was an accursed smell everywhere, as of the piled-up corpses of dead generations. It was never light, so that I used sometimes to light candles and gaze steadily at them for relief, nor was there any sun outdoors, since the terrible trees grew high above the topmost accessible tower. There was one black tower which reached above the trees into the unknown outer sky, but that was partly ruined and could not be ascended save by a well-nigh impossible climb up the sheer wall, stone by stone.
I must have lived years in this place, but I cannot measure the time. Beings must have cared for my needs, yet I cannot recall any person except myself, or anything alive but the noiseless rats and bats and spiders. I think that whoever nursed me must have been shockingly aged, since my first conception of a living person was that of somebody mockingly like myself, yet distorted, shrivelled, and decaying like the castle. To me there was nothing grotesque in the bones and skeletons that strewed some of the stone crypts deep down among the foundations. I fantastically associated these things with everyday events, and thought them more natural than the coloured pictures of living beings which I found in many of the mouldy books. From such books I learned all that I know. No teacher urged or guided me, and I do not recall hearing any human voice in all those years - not even my own; for although I had read of speech, I had never thought to try to speak aloud. My aspect was a matter equally unthought of, for there were no mirrors in the castle, and I merely regarded myself by instinct as akin to the youthful figures I saw drawn and painted in the books. I felt conscious of youth because I remembered so little.
Outside, across the putrid moat and under the dark mute trees, I would often lie and dream for hours about what I read in the books; and would longingly picture myself amidst gay crowds in the sunny world beyond the endless forests. Once I tried to escape from the forest, but as I went farther from the castle the shade grew denser and the air more filled with brooding fear; so that I ran frantically back lest I lose my way in a labyrinth of nighted silence.
So through endless twilights I dreamed and waited, though I knew not what I waited for. Then in the shadowy solitude my longing for light grew so frantic that I could rest no more, and I lifted entreating hands to the single black ruined tower that reached above the forest into the unknown outer sky. And at last I resolved to scale that tower, fall though I might; since it were better to glimpse the sky and perish, than to live without ever beholding day.
In the dank twilight I climbed the worn and aged stone stairs till I reached the level where they ceased, and thereafter clung perilously to small footholds leading upward. Ghastly and terrible was that dead, stairless cylinder of rock; black, ruined, and deserted, and sinister with startled bats whose wings made no noise. But more ghastly and terrible still was the slowness of my progress; for climb as I might, the darkness overhead grew no thinner, and a new chill as of haunted and venerable mould assailed me. I shivered as I wondered why I did not reach the light, and would have looked down had I dared. I fancied that night had come suddenly upon me, and vainly groped with one free hand for a window embrasure, that I might peer out and above, and try to judge the height I had once attained.
All at once, after an infinity of awesome, sightless, crawling up that concave and desperate precipice, I felt my head touch a solid thing, and I knew I must have gained the roof, or at least some kind of floor. In the darkness I raised my free hand and tested the barrier, finding it stone and immovable. Then came a deadly circuit of the tower, clinging to whatever holds the slimy wall could give; till finally my testing hand found the barrier yielding, and I turned upward again, pushing the slab or door with my head as I used both hands in my fearful ascent. There was no light revealed above, and as my hands went higher I knew that my climb was for the nonce ended; since the slab was the trapdoor of an aperture leading to a level stone surface of greater circumference than the lower tower, no doubt the floor of some lofty and capacious observation chamber. I crawled through carefully, and tried to prevent the heavy slab from falling back into place, but failed in the latter attempt. As I lay exhausted on the stone floor I heard the eerie echoes of its fall, hoped when necessary to pry it up again.
Believing I was now at prodigious height, far above the accursed branches of the wood, I dragged myself up from the floor and fumbled about for windows, that I might look for the first time upon the sky, and the moon and stars of which I had read. But on every hand I was disappointed; since all that I found were vast shelves of marble, bearing odious oblong boxes of disturbing size. More and more I reflected, and wondered what hoary secrets might abide in this high apartment so many aeons cut off from the castle below. Then unexpectedly my hands came upon a doorway, where hung a portal of stone, rough with strange chiselling. Trying it, I found it locked; but with a supreme burst of strength I overcame all obstacles and dragged it open inward. As I did so there came to me the purest ecstasy I have ever known; for shining tranquilly through an ornate grating of iron, and down a short stone passageway of steps that ascended from the newly found doorway, was the radiant full moon, which I had never before seen save in dreams and in vague visions I dared not call memories.
Fancying now that I had attained the very pinnacle of the castle, I commenced to rush up the few steps beyond the door; but the sudden veiling of the moon by a cloud caused me to stumble, and I felt my way more slowly in the dark. It was still very dark when I reached the grating - which I tried carefully and found unlocked, but which I did not open for fear of falling from the amazing height to which I had climbed. Then the moon came out.
Most demoniacal of all shocks is that of the abysmally unexpected and grotesquely unbelievable. Nothing I had before undergone could compare in terror with what I now saw; with the bizarre marvels that sight implied. The sight itself was as simple as it was stupefying, for it was merely this: instead of a dizzying prospect of treetops seen from a lofty eminence, there stretched around me on the level through the grating nothing less than the solid ground, decked and diversified by marble slabs and columns, and overshadowed by an ancient stone church, whose ruined spire gleamed spectrally in the moonlight.
Half unconscious, I opened the grating and staggered out upon the white gravel path that stretched away in two directions. My mind, stunned and chaotic as it was, still held the frantic craving for light; and not even the fantastic wonder which had happened could stay my course. I neither knew nor cared whether my experience was insanity, dreaming, or magic; but was determined to gaze on brilliance and gaiety at any cost. I knew not who I was or what I was, or what my surroundings might be; though as I continued to stumble along I became conscious of a kind of fearsome latent memory that made my progress not wholly fortuitous. I passed under an arch out of that region of slabs and columns, and wandered through the open country; sometimes following the visible road, but sometimes leaving it curiously to tread across meadows where only occasional ruins bespoke the ancient presence of a forgotten road. Once I swam across a swift river where crumbling, mossy masonry told of a bridge long vanished.
Over two hours must have passed before I reached what seemed to be my goal, a venerable ivied castle in a thickly wooded park, maddeningly familiar, yet full of perplexing strangeness to me. I saw that the moat was filled in, and that some of the well-known towers were demolished, whilst new wings existed to confuse the beholder. But what I observed with chief interest and delight were the open windows - gorgeously ablaze with light and sending forth sound of the gayest revelry. Advancing to one of these I looked in and saw an oddly dressed company indeed; making merry, and speaking brightly to one another. I had never, seemingly, heard human speech before and could guess only vaguely what was said. Some of the faces seemed to hold expressions that brought up incredibly remote recollections, others were utterly alien.
I now stepped through the low window into the brilliantly lighted room, stepping as I did so from my single bright moment of hope to my blackest convulsion of despair and realization. The nightmare was quick to come, for as I entered, there occurred immediately one of the most terrifying demonstrations I had ever conceived. Scarcely had I crossed the sill when there descended upon the whole company a sudden and unheralded fear of hideous intensity, distorting every face and evoking the most horrible screams from nearly every throat. Flight was universal, and in the clamour and panic several fell in a swoon and were dragged away by their madly fleeing companions. Many covered their eyes with their hands, and plunged blindly and awkwardly in their race to escape, overturning furniture and stumbling against the walls before they managed to reach one of the many doors.
The cries were shocking; and as I stood in the brilliant apartment alone and dazed, listening to their vanishing echoes, I trembled at the thought of what might be lurking near me unseen. At a casual inspection the room seemed deserted, but when I moved towards one of the alcoves I thought I detected a presence there - a hint of motion beyond the golden-arched doorway leading to another and somewhat similar room. As I approached the arch I began to perceive the presence more clearly; and then, with the first and last sound I ever uttered - a ghastly ululation that revolted me almost as poignantly as its noxious cause - I beheld in full, frightful vividness the inconceivable, indescribable, and unmentionable monstrosity which had by its simple appearance changed a merry company to a herd of delirious fugitives.
I cannot even hint what it was like, for it was a compound of all that is unclean, uncanny, unwelcome, abnormal, and detestable. It was the ghoulish shade of decay, antiquity, and dissolution; the putrid, dripping eidolon of unwholesome revelation, the awful baring of that which the merciful earth should always hide. God knows it was not of this world - or no longer of this world - yet to my horror I saw in its eaten-away and bone-revealing outlines a leering, abhorrent travesty on the human shape; and in its mouldy, disintegrating apparel an unspeakable quality that chilled me even more.
I was almost paralysed, but not too much so to make a feeble effort towards flight; a backward stumble which failed to break the spell in which the nameless, voiceless monster held me. My eyes bewitched by the glassy orbs which stared loathsomely into them, refused to close; though they were mercifully blurred, and showed the terrible object but indistinctly after the first shock. I tried to raise my hand to shut out the sight, yet so stunned were my nerves that my arm could not fully obey my will. The attempt, however, was enough to disturb my balance; so that I had to stagger forward several steps to avoid falling. As I did so I became suddenly and agonizingly aware of the nearness of the carrion thing, whose hideous hollow breathing I half fancied I could hear. Nearly mad, I found myself yet able to throw out a hand to ward off the foetid apparition which pressed so close; when in one cataclysmic second of cosmic nightmarishness and hellish accident my fingers touched the rotting outstretched paw of the monster beneath the golden arch.
I did not shriek, but all the fiendish ghouls that ride the nightwind shrieked for me as in that same second there crashed down upon my mind a single fleeting avalanche of soul-annihilating memory. I knew in that second all that had been; I remembered beyond the frightful castle and the trees, and recognized the altered edifice in which I now stood; I recognized, most terrible of all, the unholy abomination that stood leering before me as I withdrew my sullied fingers from its own.
But in the cosmos there is balm as well as bitterness, and that balm is nepenthe. In the supreme horror of that second I forgot what had horrified me, and the burst of black memory vanished in a chaos of echoing images. In a dream I fled from that haunted and accursed pile, and ran swiftly and silently in the moonlight. When I returned to the churchyard place of marble and went down the steps I found the stone trap-door immovable; but I was not sorry, for I had hated the antique castle and the trees. Now I ride with the mocking and friendly ghouls on the night-wind, and play by day amongst the catacombs of Nephren-Ka in the sealed and unknown valley of Hadoth by the Nile. I know that light is not for me, save that of the moon over the rock tombs of Neb, nor any gaiety save the unnamed feasts of Nitokris beneath the Great Pyramid; yet in my new wildness and freedom I almost welcome the bitterness of alienage.
For although nepenthe has calmed me, I know always that I am an outsider; a stranger in this century and among those who are still men. This I have known ever since I stretched out my fingers to the abomination within that great gilded frame; stretched out my fingers and touched a cold and unyielding surface of polished glass.
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