Riporto qui un brevissimo quanto intenso racconto di Edgar Allan Poe. Si tratta di Shadow - A Parable, Ombra - una Parabola, pubblicato in modo anonimo nel 1835 e appartenente alla raccolta dei Racconti del Terrore.
Dopo il salto, riporto inoltre il testo in lingua originale...
Sì! Sebbene cammini nella valle dell’Ombra…
DAVID, Salmi, XXIII
Voi che leggete siete ancora tra i vivi, ma io che scrivo sarò andato da lungo tempo nel regno delle ombre. Poiché succederanno invero strane cose, fatti segreti saranno svelati, e molti secoli saranno trascorsi, prima che queste memorie siano conosciute dall’umanità. E quando le vedranno ci sarà chi non le crederà, che ne dubiterà e solo pochi troveranno molta materia da meditare nelle parole qui scolpite con uno stilo d’acciaio.
L’anno era stato un anno di terrore, e di sensazioni più intense del terrore per le quali non esiste un nome sulla terra. Poiché molti prodigi e segni premonitori si erano manifestati, e in lungo e in largo, sul mare e sulla terraferma, le ali nere della Pestilenza si erano spiegate. A coloro, tuttavia, che conoscono le stelle, non era ignoto che i cieli mostravano un aspetto funesto; ed a me, il greco Oinos, tra gli altri, risultava evidente che era arrivato l’avvicendamento di quei settecentonovantaquattro anni nei quali, all’ingresso dell’Ariete, il pianeta Giove si congiunse con l’anello rosso del terribile Saturno. Il caratteristico atteggiamento dei cieli, se non mi sbaglio grossolanamente, si manifestava non soltanto nell’orbita geometrica della terra ma anche negli stati d’animo, nelle immaginazioni e nelle meditazioni del genere umano.
Intorno a delle caraffe di vino rosso di Chio, tra le mura solenni di una fosca città chiamata Tolemaide, sedevamo, una notte, in gruppo di sette. Alla nostra sala non si poteva accedere se non attraverso l’unica alta porta di bronzo; la porta stessa, foggiata dall’artigiano Corinnos, era un’opera di rara perfezione e si chiudeva dall’interno. Anche i neri drappeggi alle pareti della tetra stanza celavano alla nostra vista la luna, le infauste stelle, le strade deserte, ma non potevano escludere allo stesso modo la presenza e la memoria del Male. C’erano cose intorno a noi, delle quali non sono in grado di dare una esatta descrizione – cose materiali e spirituali – pesantezza dell’atmosfera – senso di soffocamento – ansia – e, soprattutto, quella terribile condizione che i nevrotici sperimentano quando i sensi sono acutamente desti e attivi, mentre i poteri della mente giacciono addormentati. Un peso mortale incombeva su di noi, opprimeva le nostre membra, i mobili della casa, i calici con i quali bevevamo; tutte le cose erano depresse, appiattite, a eccezione delle fiamme di sette lampade di ferro che illuminavano il nostro festino. Allungandosi in sottili alti pennelli di luce, rimanevano accese, pallide, immote e, nello specchio che illuminavano sulla rotonda tavola d’ebano intorno alla quale sedevamo, ciascuno di noi vedeva riflesso il pallore del proprio volto e l’irrequietezza negli occhi dei compagni. Ridevamo e sembravamo allegri, sebbene un po’ isterici; cantavamo le liriche di Anacreonte, un po’ folli, bevevamo abbondantemente sebbene il vino purpureo ci ricordasse il sangue. Poiché c’era un altro ospite nella nostra camera, nella persona del giovane Zoilo. Morto, giaceva lungo disteso, avvolto nel sudario – era il protagonista e il demone della scena.
Ahimè! non era certo coinvolto nella nostra allegria, ma qualcosa del suo volto, deformato dalla peste, e i suoi occhi, nei quali la morte non aveva del tutto estinto il fuoco della malattia, sembravano partecipare alla nostra gaiezza, come può un morto, forse, partecipare alla gaiezza di chi sta per morire. Sebbene io, Oinos, sentissi gli occhi del defunto fissi su di me, mi sforzavo di non percepire l’amarezza della loro espressione e, guardando fermamente nelle profondità dello specchio d’ebano, cantavo con forte, sonora voce, i versi del figlio di Teios. Gradualmente i miei canti cessarono, la loro eco, rimbalzando sulle nere tappezzerie della stanza, divenne debole, indistinta, si dileguò nel nulla. Ed ecco da quei drappeggi neri, che avevano spento il rumore dei canti, apparve una oscura, indistinta ombra – un’ombra come quella che la luna, bassa nel cielo, può disegnare da una figura umana: ma non era l’ombra di un uomo, né di Dio, né di qualsiasi altra cosa familiare. Dopo aver indugiato un po’ tra le tappezzerie della stanza, alla fine si fermò in piena vista sulla superficie della porta d’ottone. L’ombra era vaga, senza forma, indefinita e non era l’ombra di un uomo, né di un Dio, non di un Dio di Grecia, né di un Dio della Caldea e neppure di un Dio egizio. L’ombra restò sulla facciata d’ottone della porta, sotto l’architrave del suo telaio, non si mosse, non pronunciò parola, ma si fissò e rimase immobile. Se ben ricordo, la porta sulla quale restò l’ombra toccava i piedi del giovane Zoilo, avvolto nel sudario. E noi, i sette presenti, avendo visto l’ombra uscire dalla tappezzeria, non osavamo guardarla e, con gli occhi chini, guardavamo fissamente nelle profondità dello specchio d’ebano. Alla fine io, Oinos, a voce bassa, chiesi all’ombra dove dimorasse e quale fosse il suo nome. E l’ombra rispose: «Io sono ombra e la mia dimora è vicino alle catacombe di Tolemaide, poco lontano dai foschi piani di Helusion, che costeggiano il sudicio canale di Caronte». Noi balzammo inorriditi dalle nostre sedie e restammo tremanti, sbalorditi, atterriti, perché gli accenti della voce dell’ombra non erano quelli di un essere unico, ma di una moltitudine di esseri e, variando nella loro cadenza da sillaba a sillaba, penetravano cupi nelle nostre orecchie con le inflessioni familiari e ben presenti alla nostra memoria, di molte migliaia di nostri amici scomparsi.
Ahimè! non era certo coinvolto nella nostra allegria, ma qualcosa del suo volto, deformato dalla peste, e i suoi occhi, nei quali la morte non aveva del tutto estinto il fuoco della malattia, sembravano partecipare alla nostra gaiezza, come può un morto, forse, partecipare alla gaiezza di chi sta per morire. Sebbene io, Oinos, sentissi gli occhi del defunto fissi su di me, mi sforzavo di non percepire l’amarezza della loro espressione e, guardando fermamente nelle profondità dello specchio d’ebano, cantavo con forte, sonora voce, i versi del figlio di Teios. Gradualmente i miei canti cessarono, la loro eco, rimbalzando sulle nere tappezzerie della stanza, divenne debole, indistinta, si dileguò nel nulla. Ed ecco da quei drappeggi neri, che avevano spento il rumore dei canti, apparve una oscura, indistinta ombra – un’ombra come quella che la luna, bassa nel cielo, può disegnare da una figura umana: ma non era l’ombra di un uomo, né di Dio, né di qualsiasi altra cosa familiare. Dopo aver indugiato un po’ tra le tappezzerie della stanza, alla fine si fermò in piena vista sulla superficie della porta d’ottone. L’ombra era vaga, senza forma, indefinita e non era l’ombra di un uomo, né di un Dio, non di un Dio di Grecia, né di un Dio della Caldea e neppure di un Dio egizio. L’ombra restò sulla facciata d’ottone della porta, sotto l’architrave del suo telaio, non si mosse, non pronunciò parola, ma si fissò e rimase immobile. Se ben ricordo, la porta sulla quale restò l’ombra toccava i piedi del giovane Zoilo, avvolto nel sudario. E noi, i sette presenti, avendo visto l’ombra uscire dalla tappezzeria, non osavamo guardarla e, con gli occhi chini, guardavamo fissamente nelle profondità dello specchio d’ebano. Alla fine io, Oinos, a voce bassa, chiesi all’ombra dove dimorasse e quale fosse il suo nome. E l’ombra rispose: «Io sono ombra e la mia dimora è vicino alle catacombe di Tolemaide, poco lontano dai foschi piani di Helusion, che costeggiano il sudicio canale di Caronte». Noi balzammo inorriditi dalle nostre sedie e restammo tremanti, sbalorditi, atterriti, perché gli accenti della voce dell’ombra non erano quelli di un essere unico, ma di una moltitudine di esseri e, variando nella loro cadenza da sillaba a sillaba, penetravano cupi nelle nostre orecchie con le inflessioni familiari e ben presenti alla nostra memoria, di molte migliaia di nostri amici scomparsi.
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Yea, though I walk through the valley of the Shadow:
Psalm of David.
Psalm of David.
YE who read are still among the living; but I who write shall have long since gone my way into the region of shadows. For indeed strange things shall happen, and secret things be known, and many centuries shall pass away, ere these memorials be seen of men. And, when seen, there will be some to disbelieve, and some to doubt, and yet a few who will find much to ponder upon in the characters here graven with a stylus of iron.
The year had been a year of terror, and of feelings more intense than terror for which there is no name upon the earth. For many prodigies and signs had taken place, and far and wide, over sea and land, the black wings of the Pestilence were spread abroad. To those, nevertheless, cunning in the stars, it was not unknown that the heavens wore an aspect of ill; and to me, the Greek Oinos, among others, it was evident that now had arrived the alternation of that seven hundred and ninety-fourth year when, at the entrance of Aries, the planet Jupiter is conjoined with the red ring of the terrible Saturnus. The peculiar spirit of the skies, if I mistake not greatly, made itself manifest, not only in the physical orb of the earth, but in the souls, imaginations, and meditations of mankind.
Over some flasks of the red Chian wine, within the walls of a noble hall, in a dim city called Ptolemais, we sat, at night, a company of seven. And to our chamber there was no entrance save by a lofty door of brass: and the door was fashioned by the artisan Corinnos, and, being of rare workmanship, was fastened from within. Black draperies, likewise, in the gloomy room, shut out from our view the moon, the lurid stars, and the peopleless streets–but the boding and the memory of Evil they would not be so excluded. There were things around us and about of which I can render no distinct account–things material and spiritual–heaviness in the atmosphere–a sense of suffocation–anxiety–and, above all, that terrible state of existence which the nervous experience when the senses are keenly living and awake, and meanwhile the powers of thought lie dormant. A dead weight hung upon us. It hung upon our limbs–upon the household furniture–upon the goblets from which we drank; and all things were depressed, and borne down thereby–all things save only the flames of the seven lamps which illumined our revel. Uprearing themselves in tall slender lines of light, they thus remained burning all pallid and motionless; and in the mirror which their lustre formed upon the round table of ebony at which we sat, each of us there assembled beheld the pallor of his own countenance, and the unquiet glare in the downcast eyes of his companions. Yet we laughed and were merry in our proper way–which was hysterical; and sang the songs of Anacreon–which are madness; and drank deeply–although the purple wine reminded us of blood. For there was yet another tenant of our chamber in the person of young Zoilus. Dead, and at full length he lay, enshrouded; the genius and the demon of the scene. Alas! he bore no portion in our mirth, save that his countenance, distorted with the plague, and his eyes, in which Death had but half extinguished the fire of the pestilence, seemed to take such interest in our merriment as the dead may haply take in the merriment of those who are to die. But although I, Oinos, felt that the eyes of the departed were upon me, still I forced myself not to perceive the bitterness of their expression, and gazing down steadily into the depths of the ebony mirror, sang with a loud and sonorous voice the songs of the son of Teios. But gradually my songs they ceased, and their echoes, rolling afar off among the sable draperies of the chamber, became weak, and undistinguishable, and so faded away. And lo! from among those sable draperies where the sounds of the song departed, there came forth a dark and undefined shadow–a shadow such as the moon, when low in heaven, might fashion from the figure of a man: but it was the shadow neither of man nor of God, nor of any familiar thing. And quivering awhile among the draperies of the room, it at length rested in full view upon the surface of the door of brass. But the shadow was vague, and formless, and indefinite, and was the shadow neither of man nor of God–neither God of Greece, nor God of Chaldaea, nor any Egyptian God. And the shadow rested upon the brazen doorway, and under the arch of the entablature of the door, and moved not, nor spoke any word, but there became stationary and remained. And the door whereupon the shadow rested was, if I remember aright, over against the feet of the young Zoilus enshrouded. But we, the seven there assembled, having seen the shadow as it came out from among the draperies, dared not steadily behold it, but cast down our eyes, and gazed continually into the depths of the mirror of ebony. And at length I, Oinos, speaking some low words, demanded of the shadow its dwelling and its appellation. And the shadow answered, "I am SHADOW, and my dwelling is near to the Catacombs of Ptolemais, and hard by those dim plains of Helusion which border upon the foul Charonian canal." And then did we, the seven, start from our seats in horror, and stand trembling, and shuddering, and aghast, for the tones in the voice of the shadow were not the tones of any one being, but of a multitude of beings, and, varying in their cadences from syllable to syllable fell duskly upon our ears in the well-remembered and familiar accents of many thousand departed friends.
Bella in lingua originale *-*
RispondiElimina@SeratoninaInEndovena
RispondiEliminaoh si, molto...
conosci Poe?
Wow.
RispondiEliminaPer rispondere alla tua domanda, io adesso sono in Inghilterra...
E, anche se non condanno la tua scelta in fatto di pizze (sebbene io stessa la rifugga), devo confessare che la mia preferita rimane la margherita, come i bambini... Secondo me è l'unico modo per sentire il sapore "vero" della pizza, altrimenti gli altri ingredienti finiscono per nasconderlo... Ovviamente ogni tanto cambio, però alla fine la margherita rimane il mio amore non segreto! xD
Ciao, grazie per essere passato dal mio blog. Il tuo mi piace tantissimo e visto che adesso sono costretta a una "toccata e fuga", tornerò a trovarti per leggere con calma i tuoi post.
RispondiEliminaChiara